Le cose più belle sono quelle più difficili da raggiungere. Forse non è vero. Forse il concetto di “bello” è talmente soggettivo che un’affermazione del genere non può trovare tutti d’accordo. Ma almeno per quanto riguarda le spiagge io sono abituato così: a soffrire. La spiaggetta bella si conquista. Bisogna camminare, scendere e poi salire.
Sono abituato così fin da piccolo, dai tempi della Sardegna. Le mie vacanze erano lunghe, favolose, irripetibili oggi. Erano fatte di partenze al mattino presto per trovare parcheggio sulla strada litoranea. Poi si scendevano centinaia di gradini per raggiungere le spiagge sarde che fanno bella mostra di sé sulle cartoline ancor oggi. Cale isolate dove per fortuna le strade non arrivavano. E non arrivano neanche oggi. Io portavo il mio necessario: pinne, maschera e boccaglio. E i miei genitori portavano tutto il resto: mia sorella e il mio fratellino, l’ombrellone (che non era ancora di quelli in metalli leggeri), asciugamani, una bottiglia d’acqua fresca. Eroico. Era un andare in spiaggia eroico, fatto per amore del mare fantastico della Sardegna, per farlo godere ai propri bambini.
Per questo oggi che sono grande penso che le spiagge belle si conquistano. Cerco quella sofferenza necessaria a pagare il dazio della felicità di essere in un posto esclusivo. Ma esclusivo perchè non tutti hanno voglia di faticare così tanto per avere uno spicchio di spiaggia tra gli scogli, mica perchè è costoso o privatissimo, come la piscina del Monte Carlo Beach. La fatica peggiore è tornare indietro. Spossati dal sole e dall’acqua, con le cicale che friniscono impazzite e che provano a far impazzire anche te, come hanno fatto con Van Gogh.
Vedere i gradini, sentire passare il treno e camminare verso casa, verso un bichiere di acqua fresca. Ripensando alla scalinata di Cala Fuili, al mio fuciletto subacqueo con il quale facevo male a dei minuscoli pesci. Non mi pentirò mai abbastanza di aver avuto delle piccole prede, infilzate dal mio arpione per il gusto primordiale di procurarsi del cibo. Piccole salme da buttare via, pesci immangiabili. Si contorcevano presi tra i rebi, e io felice che emergevo dall’acqua urlando. Non lo farei più. Non vorrei mai più interrompere la danza a mezz’acqua delle creature del mare. Mi ci immergo da ospite, e le osservo mentre loro mi guardano e valutano quanto sono grosso e che pericolo posso costituire.
Oggi in spiaggia c’era una famiglia italiana. Il padre era un cacciatore subacqueo e portava il ragazzino di 12-13 anni con il suo fuciletto a sparare ai pesci. Mi ci sono rivisto. Oggi difendo il mare e i suoi abitanti perchè proprio quei ragazzini possano ancora vedere i delfini saltare davanti alle prue dei battelli. Perchè possano vedere i polpi tra gli scogli e non solo nei piatti. Perchè capiscano come sono fatti i pesci, visto che li mangiano solo in bastoncini impanati.
No pain, no gain, nessuna vittoria senza sofferenza, dicono in America. Ma è bello camminare sotto il sole e salire e scendere scalinate se arrivi da una mezza mattinata passata in acqua, in una spiaggetta che “sembra i Caraibi.” Che poi abbiamo ‘sto mito dei Caraibi probabilmente perchè non li conosciamo bene. Le spiagge che ho visto a Cuba erano interessanti, anche quelle del Messico. Ma solo quella di Tulum, sotto i templi, mi ha impressionato. Ad Aruba ho visto solo scogliere, nelle USA Virgin Islands in spiaggia non sono andato così come a Puertorico. In Guadaloupa non le ho trovate eccezionali.
Per me le spiagge di riferimento sono quelle sarde: Fùili, Ziu Martine, Cala Luna, Cala Sisine, Osalla. Bisogna soffrire per raggiungerle…